Sentendo il nome di Aslan, dunque, i quattro ragazzi ebbero un tuffo al cuore. Edmund fu invaso da una misteriosa sensazione di orrore, Peter si senti improvvisamente coraggioso e pieno di spirito d’avventura, Susan ebbe l’impressione di essere avvolta da un’onda di profumo o forse da una musica deliziosa. Lucy, da parte sua, si sentì come chi si risveglia per accorgersi che è cominciata l’estate ed è tempo di vacanza. Chiese: — Ma il signor Tumnus dov’è?

— Ssst — fece il signor Castoro. — Ssst. Andiamo a parlare in un posto più sicuro. Vi dirò tutto durante il pranzo.

Nessuno, tranne Edmund, pensò di non fidarsi del signor Castoro; tutti, compreso Edmund, furono soddisfatti di sentire la parola "pranzo". Seguirono il nuovo amico che si era messo a camminare con un’andatura incredibilmente veloce. Sempre attraverso il folto del bosco, marciarono per oltre un’ora; poi gli alberi cominciarono a diradarsi e la piccola comitiva si trovò davanti a un paesaggio semplicemente delizioso. Erano sull’orlo di una discesa piuttosto ripida, in alto il sole splendeva nel cielo azzurro e ai loro piedi si apriva una valle attraversata da un bel fiume. Il fiume, purtroppo, era coperto da una lastra di ghiaccio che tuttavia lasciava libera una bella diga, di quelle che i castori sanno costruire con maestria. I ragazzi non ebbero dubbi: la bellissima diga era opera del loro nuovo amico. Bastava guardare l’espressione del muso per capirlo subito: il signor Castoro, infatti, aveva quell’aria di soddisfazione e finta modestia che appare sul viso di una persona quando ti mostra un lavoro che ha fatto da sé, come un giardino ben coltivato o un quadro ben dipinto. Perciò Susan si sentì obbligata a esprimere la sua ammirazione, che del resto era sincera.

— Che splendida diga! — esclamò.

Il signor Castoro, stavolta, non la zittì come al solito, ma con una specie di noncuranza, disse: — Oh, è una cosetta da nulla. Una sciocchezzuola che ho costruito personalmente. E non è neppure finita.

A monte della diga c’era un laghetto che ora appariva come una enorme lastra di ghiaccio verde scuro, perfettamente levigata. Ai piedi della diga, là dove avrebbe dovuto esserci la cascatella, c’era del ghiaccio rappreso in forme strane, onde, vortici, blocchi di schiuma, come al momento in cui era arrivato il gelo improvviso. Infine, la parte della diga da cui l’acqua era solita gocciolare, filtrare o sprizzare di sotto aveva l’aspetto di un muro scintillante di mille ghiaccioli, disposti a ghirlanda o a festoni e che sembravano zucchero filato della migliore qualità. Nel centro della diga, quasi in cima, sorgeva una casetta che a dir la verità aveva più la forma di un alveare che di una casa vera e propria. Un alveare enorme, beninteso, con un buco sul tetto dal quale usciva un bel pennacchio di fumo che solo a vederlo (specialmente a chi ha fame) faceva venire in mente una pentola che bollisse, così da mettere più fame ancora.

Questo fu quello che videro, ma Edmund notò qualcos’altro: verso il fondo della valle un secondo e piccolo fiume si gettava in quello più grande, scendendo da una valletta minore chiusa da due colline. Vedendole, fu sicuro di riconoscerle: erano proprio le colline gemelle che la Strega Bianca gli aveva indicato come punto di riferimento per tornare da lei. Là sorgeva il palazzo della regina di Narnia, a poco più di un chilometro di distanza. Edmund ricordò la dolcezza incomparabile delle gelatine di frutta e la promessa della regina di farlo diventare re.

"Voglio proprio vedere la faccia che farà Peter" si disse il ragazzo, e un orribile pensiero gli attraversò la mente.

— Eccoci arrivati — annunciò il signor Castoro. — Sembra che mia moglie ci stia aspettando. Bene, vi faccio strada. Attenzione a non scivolare.

La diga era abbastanza ampia per camminarci su, ma un po’ pericolosa (almeno per i figli di Adamo e le figlie di Eva) perché coperta da una sottile crosta di ghiaccio e fiancheggiata da una parte dal lago ghiacciato, dall’altra da un brutto precipizio: il salto della cascata irta di ghiaccioli. I quattro ragazzi seguirono il signor Castoro tenendosi in fila indiana e fermandosi ogni tanto per ammirare la strana bellezza del fiume di ghiaccio, visibile per molti chilometri, sia a monte che a valle. Infine, raggiunsero la casa del signor Castoro, il quale aprì la porta e disse: — Cara, eccoci. Li ho trovati, due figli di Adamo e due fighe di Eva.

Entrarono e Lucy sentì uno strano rumore meccanico, come di una ruota che girasse in fretta: poi vide una femmina di castoro piuttosto anziana che si dava un gran daffare con la manovella di una macchina per cucire.

La signora Castoro aveva gli occhiali sul naso, teneva un lungo filo da imbastire tra le labbra e lavorava di buona lena. Appena vide i nuovi venuti, fermò la macchina e alzando due zampette grinzose esclamò: — Ah, eccovi finalmente. Temevo che non sarei vissuta abbastanza per vedere questo fausto giorno. Le patate sono già sul fuoco, marito mio, direi che dovresti procurarci un bel po’ di pesce.

— Lo farò subito — rispose il signor Castoro.

Poi prese un secchio e uscì seguito da Peter. I due si avviarono di nuovo per la diga e raggiunsero un punto sul laghetto dove era visibile un largo foro praticato nel ghiaccio, che il signor Castoro provvedeva ogni giorno a mantenere aperto manovrando abilmente la sua piccola ascia da boscaiolo.

I due si sedettero ad aspettare: il signor Castoro, che se ne infischiava del freddo, stava immobile, con santa pazienza e con gli occhi fissi nel buco. A un certo momento ficcò la zampa nell’acqua e la ritirò di scatto: aveva preso una bella trota. La mise nel secchio e ricominciò ad aspettare.

Susan e Lucy, intanto, si erano messe ad aiutare la signora Castoro: prepararono la tavola, tagliarono il pane a fette, spillarono una bella caraffa di birra da un barile che stava nell’angolo, misero i piatti a scaldare nel forno e la teiera a bollire sul fuoco. Infine prepararono il necessario per friggere il pesce. Mentre faceva queste piccole cose, Lucy notò che la casa dei signori Castoro era pulita e non mancava di nulla, ma era molto diversa da quella del fauno. La tovaglia, candidissima, era di tela ruvida e grossolana. Alle pareti non c’erano quadri o scaffali di libri, ma soltanto arnesi da lavoro, accette, vanghe, cazzuole da muratore, recipienti per la malta, nonché reti e canne da pesca, impermeabili e stivaloni di gomma. Dal soffitto pendevano prosciutti e trecce di cipolle; sul pavimento mancava il tappeto; i letti non erano che due cuccette da marinaio, sistemate in un vano della parete. Insomma, si vedeva bene che quella era una casa di gente semplice e laboriosa.

Il grasso nella padella aveva già cominciato a sfrigolare, quando la porta si aprì ed ecco il signor Castoro con pesce per tutti. Bastava infarinarlo e friggerlo, perché aveva già provveduto a pulirlo con il coltellino mentre si trovava alla diga. Appena il pesce cominciò a dorarsi un poco, nella stanza si sparse un profumino delizioso.

Ai ragazzi venne l’acquolina in bocca, ancor più quando la signora Castoro disse: — Tra poco ci siamo.

Susan pelò le patate, Lucy aiutò la padrona di casa a fare le porzioni e un attimo dopo ognuno prendeva il suo sgabello (nella casa c’erano soltanto sgabelli a tre gambe e una sedia a dondolo speciale per il signor Castoro). Il pranzo ebbe inizio; per i giovani c’era una bella caraffa di latte e panna — la birra era riservata al padrone di casa — e in mezzo alla tavola un grosso pezzo di burro: ognuno poteva prenderne a volontà e mangiarlo con le patate calde.

I ragazzi mangiavano di gusto, trovando che non ci fosse niente di più delizioso di un buon pesce d’acqua dolce (e io sono d’accordo con loro), soprattutto quando arriva a tavola mezz’ora dopo essere stato pescato e un attimo dopo essere stato fritto.

Quando ebbero finito, la signora Castoro tirò fuori dal forno qualcosa di inatteso: uno splendido rotolo di pastafrolla e marmellata, ancora fumante. Mentre i ragazzi si buttavano sul dolce, la brava signora si occupò del tè; quando l’ultima briciola di dolce fu scomparsa, il tè era pronto per essere versato. Alla fine i commensali accostarono lo sgabello alla parete, per appoggiare la schiena, e diedero un gran sospiro di soddisfazione.