Di colpo la slitta si fermò: sembrava che avesse deciso di non muoversi mai più. Ci fu un attimo di silenzio totale in cui Edmund riuscì a cogliere lo strano rumore. Non troppo strano, però, perché gli sembrò di averlo già sentito altre volte e di riconoscerlo. Era un fruscio dolce e continuo, un mormorio argentino. Ma sì (e il cuore gli diede un tuffo di gioia): era il rumore dell’acqua che scorre. Anche se non poteva vederli, Edmund sentiva che tutt’intorno c’erano rigagnoli d’acqua viva, ruscelli e torrenti, e più lontano la voce del fiume e il rombo possente della cascata. Forse il ragazzo non se ne rese conto all’istante, ma intuì che il lungo gelo invernale era finito. Alzò gli occhi e vide un grosso blocco di neve che scivolava giù dal ramo di un albero, lasciandolo libero e verdissimo. Era la prima volta, nel bosco di Narnia, che Edmund vedeva un ramo d’abete senza il mantello di neve. Ma non c’era tempo per la contemplazione. La strega tuonò: — E tu, sciocco, va’ a dare una mano.
Edmund, naturalmente, dovette obbedire. Scese dalla slitta che si era incagliata in una buca melmosa e cominciò ad aiutare il nano che si sforzava di smuoverla. Non fu facile e ci riuscirono solo dopo un bel po’: intanto sguazzavano coi piedi in quella che non era più neve ma fanghiglia acquosa, mentre dai rami degli alberi scendevano mille goccioline con un plif-plif gentile.
La slitta riprese a correre, ma ormai i segni del disgelo si facevano troppo evidenti. Qua e là, e sempre più spesso, apparivano larghe chiazze di verde.
Poi si bloccarono di nuovo.
— Non si può più andare avanti — disse il nano. — Maestà, la slitta non è fatta per questo pantano.
— E allora andremo a piedi — dichiarò la strega.
— Così non li raggiungeremo mai — brontolò il nano. — Devono avere già un buon vantaggio.
— Sei il mio schiavo o il mio consigliere? — gridò l’altra. — Fai come ti ho detto. Giù dalla slitta, lega le mani dell’essere umano con una corda e prendi la frusta. Taglia le redini delle renne: torneranno a casa da sole.
Il nano obbedì e il povero Edmund si trovò costretto a camminare con le mani legate dietro la schiena; il nano teneva un capo della corda e appena il ragazzo rallentava il passo gli faceva assaggiare la frusta. Edmund procedeva più svelto che poteva, ma gli capitava spesso di scivolare nella fanghiglia o sull’erba umida, e allora sentiva il sibilo della frusta e la voce della strega che ripeteva: — Più in fretta, più in fretta.
Le chiazze d’erba si facevano sempre più frequenti e sempre più ampie. Via via che gli alberi si spogliavano della neve, ecco che apparivano i rami nudi delle querce, dei faggi e degli olmi. La nebbia, che in un primo momento si era infittita, ora cominciava a diradarsi, facendosi vagamente dorata. Sul terreno apparivano macchie di sole qua e là, e nel cielo larghi squarci d’azzurro.
Ma stavano per accadere cose anche più sorprendenti. Scendendo verso la radura passarono davanti a un boschetto di argentee betulle dove il terreno era cosparso di innumerevoli fiori gialli: le celidonie. Dal rumore crescente dell’acqua si capiva che il fiume era sempre più vicino, e infatti dopo poco lo videro. Sull’altra sponda Edmund scorse dei bucaneve e girò la testa per vederli meglio.
— Bada a camminare, tu. Non guardare in giro — gridò il nano, con un violento strattone che torse malignamente la corda.
Ma Edmund non poteva impedirsi di vedere quello che aveva davanti agli occhi. Più in là, ecco un grande albero ai piedi del quale spuntavano i fiori del croco nei loro splendidi colori bianco, viola e giallo dorato. E infine non si trattò solo di vedere, ma di sentire: era un suono più delizioso del mormorio dell’acqua corrente. Sul ramo di un albero un uccellino cinguettò e un altro gli rispose da lontano. Fu come un segnale: in pochi minuti si levarono altri cinguettii e altri trilli e gorgheggi, prima sommessi e timidi, poi sempre più sicuri e sonori. Il bosco echeggiò di una melodia meravigliosa: bastava che Edmund girasse un momento lo sguardo ed ecco apparire un uccello su un ramo, un altro che volteggiava nell’aria ad ali spiegate, altri due che si inseguivano saltellando o semplicemente si lisciavano le piume col becco.
— Più in fretta. Più in fretta! — gridava la strega.
La nebbia era ormai sparita del tutto. Il cielo era di un bell’azzurro intenso, solcato di tanto in tanto da un’ultima nuvoletta frettolosa. Nelle radure fiorivano primule a migliaia. Una brezza leggera e profumata accarezzava il volto dei tre viaggiatori, spruzzandoli di goccioline cadute dai rami. Gli alberi tornavano alla vita: larici e betulle mostravano le prime gemme di un pallido verde, i maggiociondoli si coprivano di germogli color oro, sui faggi spuntavano le foglioline e l’aria nel complesso sembrava verdeggiare. Un’ape attraversò il sentiero, ronzando.
— Questo non è il disgelo — gridò a un tratto il nano, fermandosi di botto. — Questa è la primavera! — Poi si rivolse alla sua padrona e chiese: — E adesso? Cosa facciamo? L’inverno se n’è andato. Questa è opera di Aslan.
— Se pronunci ancora quel nome… — lo interruppe la strega. — Se pronunci quel nome ti ammazzo.
12
La proma battaglia di Peter
Mentre il nano e la strega dicevano queste cose, i castori e i ragazzi continuavano nella marcia, con l’impressione di avanzare in un sogno delizioso. Di ora in ora l’aria si faceva più tiepida, finché i ragazzi rinunciarono alle pellicce. Ogni tanto si fermavano un attimo per dire: — Oh, guarda le campanule! — oppure: — Un martin pescatore, là sul fiume!
— E senti questo tordo! — oppure: — Cos’è questo profumo?
— Sono mughetti…
A volte proseguivano per lunghi tratti in silenzio, come estasiati. Passavano dai prati assolati ai freschi, ombrosi boschetti; dalle radure in cui crescevano i grandi olmi che ostentavano le prime fronde, ai gentili pergolati di foglie tenerelle; dai cespugli di ribes ai sentieri fiancheggiati dal biancospino. Talvolta il profumo era persino eccessivo. Vedendo che l’inverno cedeva così rapidamente il passo alla primavera, e che il bosco passava dal gelo di gennaio ai fiori di maggio nel giro di poche ore, i tre ragazzi furono sorpresi quanto Edmund. Non sapevano che era l’effetto dell’avvicinarsi di Aslan (come invece sapeva molto bene la strega), ma intuivano che qualcosa era andato storto nel tremendo incantesimo che aveva fatto durare l’inverno così a lungo. Inoltre, si resero conto che con il disgelo la loro nemica non avrebbe più potuto approfittare della slitta. Per questo rallentarono l’andatura e si concessero pause sempre più frequenti e più lunghe. Erano stanchi, naturalmente, ma non penosamente stanchi. Direi piuttosto che erano infiacchiti, come succede a volte dopo una giornata trascorsa all’aperto: provavano una sensazione di sognante languore. Susan, però, aveva una vescichetta sul tallone.
Già da tempo si erano allontanati dal fiume perché la strada li portava verso est (per raggiungere la Tavola di Pietra avevano dovuto piegare a destra); ma se anche non fosse stata la direzione giusta, sarebbero stati costretti ad abbandonare il fiume in ogni caso: con tutta la neve che si era sciolta in poco tempo, il letto era diventato gonfio e tumultuoso e aveva straripato per larghi tratti, cancellando i sentieri.
Ora il sole cominciava a scendere, s’era fatto più rosso e sul terreno si disegnavano ombre più lunghe, mentre i fiori pensavano che fosse venuto il momento di chiudere le corolle e prepararsi a dormire.
— Non manca molto — annunciò a un tratto il signor Castoro, guidando il gruppo su per un’altra collina e giù in una valle in cui crescevano solo alberi altissimi, ma il cui tappeto di soffice muschio era un riposo per i piedi stanchi; quindi affrontarono un’altra ripida salita. La piccola Lucy si domandò se ce l’avrebbe fatta ad arrivare in cima senza prima riposarsi un poco, quand’ecco che arrivarono alla meta.