"Quello che dicono di lei non dev’essere vero" pensava Edmund. "Tutte calunnie, perché la odiano. Forse è proprio la regina legittima… Comunque, meglio una donna che l’orribile Aslan."

Edmund rimuginava tra sé pensieri ai quali fingeva di credere perché gli faceva comodo una giustificazione. Ma in fondo al cuore qualcosa diceva anche a lui che la Strega Bianca era un essere malvagio e crudele.

Appena fu all’aperto si accorse che nevicava e aveva dimenticato di prendere la pelliccia, ma anche se sentiva un gran freddo non era il caso di rientrare. Alzò il bavero e si avviò lungo la diga dei castori. Per fortuna il ghiaccio era coperto da uno strato di neve fresca, così Edmund raggiunse la riva del fiume senza scivolare, ma lì le cose andarono peggio.

Calava la sera (d’inverno, si sa, le giornate sono corte e in casa dei castori si era pranzato alle tre passate) ed Edmund, con i fiocchi di neve che gli turbinavano intorno, non vedeva a un palmo dal naso. Inoltre, in quel tratto di bosco non c’erano sentieri. In compenso c’erano tronchi d’albero caduti e sepolti nella neve, sassi e macigni grossi come rocce e pozzanghere gelate che lo facevano inciampare di continuo. La corteccia ghiacciata degli alberi e la ruvida pietra gli graffiavano dolorosamente le caviglie.

Edmund era pieno di lividi e graffi, bagnato fradicio e con un terribile senso di solitudine e sconforto. Il buio si faceva più fitto e credo che sarebbe tornato volentieri a far pace con i fratelli, rinunciando ai suoi cattivi propositi, se non l’avesse sfiorato un certo pensiero: "Quando sarò re di Narnia, la prima cosa che farò sarà ordinare che costruiscano strade più decenti." In questo modo si consolò e tirò avanti.

Via nella neve e nell’oscurità crescente, fantasticando sul castello che gli sarebbe piaciuto e su quante automobili avrebbe avuto a disposizione, su un treno speciale tutto per lui e un cinema privato. Era arrivato alla promulgazione della legge contro i castori — e al provvedimento speciale che avrebbe impedito a Peter di rubargli il trono — quando improvvisamente il tempo cambiò. Smise di nevicare, si alzò un gran vento che spazzò le nuvole e in cielo comparve la luna. Era una bella luna piena che, brillando sul candore della neve, illuminava il bosco come se fosse giorno. Solo le ombre nere confondevano ancora la vista.

Se non fosse comparsa la luna, forse Edmund non avrebbe mai trovato la strada giusta. Allora vide il piccolo fiume che aveva già notato quando si erano diretti alla casa dei castori (lo ricordate?) e che confluiva in quello più grande. Lo raggiunse alla svelta e cominciò a seguirne il corso, arrivando in una piccola valle.

Era più rocciosa di quella che aveva appena lasciato e così piena di arbusti che Edmund finì per bagnarsi tutto: infatti, per aprirsi la strada doveva spostare i rami da cui cadevano grossi blocchi di neve. La neve si infilava dentro il colletto e sotto la camicia, mentre Edmund sentiva crescere il suo odio per Peter, come se la colpa fosse sua. Alla fine arrivò a un punto in cui la valle si apriva su una piana fiancheggiata da due colline. Là, dall’altra parte del fiume, apparve la casa della Strega Bianca inargentata dalla luna.

Veramente, più che una casa era un castello in miniatura e sembrava fatto esclusivamente di torri, ognuna delle quali terminava in una cuspide. Le cuspidi erano lunghe e sottili come frecce o aghi, tanto da far sembrare che le torri avessero in testa un cappello appuntito da strega. Sulla neve immacolata gettavano ombre allungate e strane, tanto che Edmund si sentì invadere dalla paura; ma era troppo tardi per tornare indietro. Attraversò il fiume ghiacciato e si avvicinò al castello: tutto era immobile e immerso nel silenzio più profondo. Edmund non sentiva neanche il suono dei suoi passi, perché sulla neve fresca non facevano il minimo rumore.

Camminò e camminò ancora facendo il giro del castello, da una torre all’altra, finché trovò il portone d’ingresso. Era un’arcata immensa con un enorme cancello di ferro spalancato. Edmund si appoggiò all’arco e sbirciò nel cortile, ma quello che vide per poco non gli fermò il cuore. A pochi passi da lui c’era un leone gigantesco, nella classica posizione della belva che si prepara a saltare addosso a qualcuno. Edmund, con le ginocchia che gli tremavano, si appoggiò un po’ di più al grande arco, nascondendosi nell’ombra. Se non avesse già avuto i denti che battevano per il freddo, li avrebbe certamente battuti per la gran paura. Quanto tempo restasse così non saprei dirlo esattamente, ma i minuti gli sembrarono lunghi come ore.

Alla fine Edmund cominciò a chiedersi come mai il leone rimanesse immobile (non aveva mosso neanche un muscolo!). Si arrischiò a fare un passo avanti, badando di tenersi nell’ombra, e si accorse che il leone mirava non a lui, ma a qualcun altro: a un nano che stava a meno di un metro dalla belva, voltandogli le spalle ed evidentemente ignaro della sua presenza.

"Appena si slancia su di lui, io me la svigno" progettò Edmund. "A meno che il leone non volti la testa e mi veda."

Ma non si muoveva affatto, e neppure il nano. Fu allora che Edmund si ricordò dei discorsi sulla regina che trasformava chiunque in statue di pietra.

— Forse sono di pietra anche questi — esclamò, e si accorse che sulla schiena del leone, sulla criniera e perfino sul naso c’era della neve gelata. Nessun animale avrebbe sopportato di tenersi addosso la neve ghiacciata. — È una statua — sospirò Edmund con immenso sollievo.

Lentamente, con il cuore che batteva come se volesse scoppiargli in petto, Edmund si avvicinò al leone ma non si arrischiò a toccarlo subito, e quando finalmente trovò il coraggio allungò un dito e uno solo: pietra. Si era fatto spaventare da un leone di pietra.

Edmund riprese coraggio e, nonostante il freddo, un benefico senso di calore lo invase dalla testa ai piedi. Nello stesso tempo gli balenò un pensiero che gli parve più confortante ancora: "Forse è proprio il terribile Aslan di cui parlavano quei tali, sulla diga. Lei deve averlo trasformato in statua. La storia del grande leone è finita male: chi avrebbe paura di un Aslan? Puah."

Restò a fissare il leone di pietra, poi fece qualcosa di veramente sciocco, da ragazzino stupido. Tirò fuori un mozzicone di matita che aveva in tasca e scarabocchiò un paio di baffi sul muso del leone e un paio di occhiali a cavallo del naso. Infine esclamò: — Ebbene, vecchio scemo di un Aslan, come ti senti a essere di pietra? Ti credevi invincibile, vero?

Ma nonostante i baffi da bellimbusto e gli occhiali, il leone di pietra aveva un aspetto maestoso, grave e terribile oltre che un po’ triste. Edmund non provò gusto a sbeffeggiarlo, gli voltò le spalle in fretta e lo lasciò a fissare il chiaro di luna. Arrivato nel centro del grande cortile, si guardò intorno e vide decine e decine di statue di pietra disseminate senza ordine apparente, come le figure degli scacchi su una scacchiera abbandonata a metà partita. C’erano lupi e orsi, volpi e giaguari di pietra. C’erano graziose figure che sembravano ragazze ma erano ninfe del bosco, spiriti degli alberi e dei fiumi. C’erano un centauro, un cavallo alato e una forma lunga e flessuosa che a Edmund sembrò un drago o qualcosa di simile. Ed erano immobili come sono le statue, ma così perfettamente naturali che il colpo d’occhio sul cortile avrebbe fatto venire i brividi a chiunque.

Proprio nel mezzo c’era un personaggio simile a un uomo ma alto come un albero, la faccia burbera, barba ispida e una gran clava nella mano destra. Pur sapendo che il gigante era pietrificato come gli altri, Edmund non ebbe il coraggio di passargli davanti.

In fondo al cortile c’era una luce che veniva da una porta aperta; per arrivarci Edmund dovette salire una breve scalinata e vide che sulla soglia era sdraiato un grosso lupo.

"È solo un lupo di pietra" pensò. "Non può certo farmi del male."