Si trovavano in un grande spazio aperto che dominava la foresta verde, estesa a perdita d’occhio in tutte le direzioni tranne a est. Laggiù, a oriente, qualcosa brillava e palpitava in lontananza.

— Mio Dio — mormorò Peter a Susan. — Il mare!

Proprio sulla vetta della collina sorgeva la Tavola di Pietra: una lastra grigia, dall’aspetto un po’ rozzo, sostenuta da quattro macigni dello stesso colore. La tavola era molto vecchia e coperta di strani segni che avrebbero potuto essere lettere di un alfabeto sconosciuto. A guardarli si provava una sensazione del tutto particolare, inspiegabile.

Poi videro una tenda eretta in lontananza: era meravigliosa, soprattutto ora che i raggi del tramonto ne illuminavano le bande di seta gialla, i cordoni di velluto cremisi e i paletti d’avorio. Sulla tenda sventolava una bandiera con un leone rampante in campo rosso. Mentre i ragazzi osservavano estasiati, la brezza del mare che agitava il vessillo si allungò a carezzare i loro visi; ed ecco che dal lato opposto sentirono arrivare una musica. Si voltarono in quella direzione e videro l’essere che erano venuti a incontrare.

Aslan stava al centro di una folla di creature che gli si erano raggruppate intorno, formando una mezzaluna. Le fanciulle degli alberi e le fanciulle delle sorgenti (quelle che noi chiamiamo driadi e naiadi) tenevano in mano strumenti a corda da cui traevano musica soave. C’erano quattro grandi centauri, per metà cavalli di proporzioni gigantesche e metà uomini altrettanto imponenti, dall’espressione calma e grave. C’erano un toro con la testa d’uomo, un unicorno, un pellicano, un’aquila e un cane, gigantesco anche quello. Accanto ad Aslan stavano due leopardi, uno dei quali gli portava la corona e l’altro lo stendardo.

In quanto a lui, Aslan, i ragazzi rimasero a guardarlo senza sapere cosa dire o fare. Chi non è mai stato nel regno di Narnia non può rendersi conto di come una creatura possa essere buona e terribile allo stesso tempo. Anche se i tre.ragazzi non avevano mai pensato a cose del genere, ora se ne rendevano conto perfettamente. Quando tentarono di fissare Aslan, riuscirono a cogliere per un attimo la visione di una gran criniera dorata e due grandi occhi splendenti dall’espressione grave e solenne, veramente regale; poi abbassarono lo sguardo, intimiditi.

— Andiamo, su — mormorò il vecchio signor Castoro.

— Vada avanti lei, signor Castoro — disse Peter.

— Oh, no. Prima i figli di Adamo e poi gli animali.

— Allora vai tu, prima le donne — bisbigliò Peter rivolgendosi a Susan.

— No, il maggiore sei tu. Tocca a te — rispose lei.

Peter capì che Susan aveva ragione e che, indugiando, le cose diventavano solo più difficili. Perciò sguainò la spada e alzandola in segno di saluto, mormorò: — Su, coraggio, venitemi dietro. — Poi, avviandosi verso il maestoso leone, aggiunse: — Aslan, noi siamo qui per…

— Benvenuto, Peter figlio di Adamo — lo interruppe Aslan. — Benvenute Susan e Lucy, figlie di Eva. Benvenuti castori.

La voce era dolce e profonda e i ragazzi si sentirono in qualche modo rassicurati. Rimasero sereni e tranquilli dov’erano, senza nessun imbarazzo e senza più chiedersi cosa dire o fare.

— Dov’è il quarto? — domandò il leone.

— È andato con la Strega Bianca. Ha cercato di tradire i suoi fratelli, grande Aslan — rispose il signor Castoro.

In quel momento Peter sentì il bisogno di dire qualcosa.

— È stata anche un po’ colpa mia, Aslan. Ero in collera con lui e credo che questo lo abbia spinto a lasciarci.

Aslan non disse nulla né per scusare Peter né per biasimare Edmund. L’espressione dei suoi occhi non cambiò. Ai ragazzi sembrò giusto che non ci fosse niente da dire.

— Per favore, Aslan… — mormorò Lucy con grande timidezza. — Non si potrebbe fare qualcosa per salvare Edmund?

— Si farà tutto il possibile — rispose Aslan. — Ma forse la cosa è più difficile di quanto credi.

Ci fu un altro silenzio durante il quale Lucy continuò a fissare Aslan, ammirandone l’aspetto maestoso e tranquillo. Le parve che nella sua espressione ci fosse una sfumatura di tristezza, ma un attimo dopo non era già più così. Aslan scosse la criniera, alzò una zampa ("Che terribili artigli" pensò Lucy "tra quei polpastrelli di velluto!") e si rivolse alle driadi e alle naiadi: — Ora si prepari la festa. Conducete le due figlie di Eva nella tenda e fate in modo che riposino.

Quando Susan e Lucy se ne furono andate, Aslan posò la zampa sulla spalla di Peter (per quanto morbida, era una zampa molto pesante) e disse: — Vieni con me, figlio di Adamo. Ti farò vedere il castello in cui sarai re.

Tenendo in mano la spada sguainata, Peter seguì Aslan lungo il crinale della collina, a est, dove si apriva una visione stupenda. Il sole tramontava alle loro spalle: tutto ciò che si stendeva più in basso — la foresta e le colline, le grandi curve del fiume argenteo che serpeggiava verso la foce e le valli verdeggianti — appariva immerso nella tenue luce della sera. In lontananza si vedeva il mare sotto il cielo azzurro dove erano sospese piccole nuvole che il tramonto colorava di rosa. Ma là, dove il paese di Narnia era lambito dal mare, esattamente alla foce del Grande Fiume, si ergeva qualcosa che sembrava una montagna sfolgorante.

Non era una collina di luce, ma un grande castello. Lo scintillio meraviglioso era dovuto al riflesso del tramonto che faceva brillare i vetri alle finestre, ma a Peter sembrò ugualmente che il castello fosse una stella splendente posata in riva al mare.

— Eccolo, uomo — disse Aslan. — Laggiù c’è Cair Paravel con i suoi quattro troni. Su uno di essi siederai tu, come re: sei il primogenito e dominerai sugli altri.

Peter rimase in silenzio, poi il suo orecchio fu raggiunto da uno squillo curioso: sembrava una tromba, ma era più cupo.

— È tua sorella che soffia nel piccolo corno — spiegò Aslan in un sussurro così basso che, se non temessi di mancargli di rispetto, direi che somigliava al ron-ron di un placido gatto.

Peter non capì subito il significato di quelle parole, ma vide che le creature di Aslan accorrevano in massa dalla sua parte. Il leone ordinò: — Indietro, voi. Lasciate che il principe si faccia cavaliere!

Finalmente Peter capì e si lanciò di corsa verso la gran tenda di seta gialla. Stava per accadere qualcosa di orribile.

Naiadi e driadi fuggivano atterrite di qua e di là, Lucy correva verso di lui con tutta la velocità che le permettevano le sue gambette, pallida come un cencio lavato. Susan scattò verso un albero e cominciò ad arrampicarsi; la inseguiva una grossa bestiaccia grigia che Peter scambiò prima per un orso, poi per un cane: ma era troppo grande, doveva essere un lupo. Era infatti un lupaccio ringhioso che si era alzato sulle zampe posteriori e, appoggiando quelle anteriori al tronco dell’albero, tentava di azzannare Susan.

Il lupo aveva i peli della schiena ritti come una cresta di fili di ferro. Susan era arrivata al secondo, grosso ramo e una delle gambe penzolava nell’aria a pochi centimetri dai denti del lupo. Peter si chiese, stupito, perché la sorella non cercasse di salire più su o almeno di aggrapparsi saldamente: poi si accorse che stava per svenire e che sarebbe caduta immancabilmente nelle fauci della belva.

In quel momento Peter non si sentiva particolarmente coraggioso: anzi, gli pareva di esser preso da un invincibile senso di nausea, ma non fece alcuna differenza. Si lanciò impetuosamente verso il lupaccio e vibrò un colpo con la spada, mirando al fianco. Il colpo non arrivò a segno perché il lupo, rapido come il lampo, si voltò verso il ragazzo, gli occhi fiammeggianti e la bocca spalancata, latrando furiosamente. Se non fosse stato così, se il lupo non avesse spalancato la bocca per latrare, avrebbe potuto saltare subito alla gola di Peter; ma era troppo furioso e il ragazzo ebbe il tempo di fare un balzo indietro (tutto accadde in un batter d’occhio). Peter tornò all’attacco e con tutte le forze affondò la spada nel petto della bestiaccia, proprio in mezzo alle zampe anteriori, dritto al cuore.